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autobiografia |
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AUTOBIOGRAFIA
NARRO LA MIA VITA
Dopo una breve preghiera per
implorare aiuto dal cielo, luce dallo Spirito Santo allo scopo di poter
fare ciò che il mio padre spirituale mi ha ordinato, narro - anche se
con molto sacrificio - la mia vita, così come il Signore me la ricorderà
di volta in volta.
Primi
ricordi
Mi chiamo Alexandrina Maria da Costa:
nacqui nella frazione Gresufes della parrocchia di Balasar, comune di
Póvoa de Varzim, distretto di Oporto il 30 marzo 1904, mercoledì della
settimana santa. Fui battezzata il 2 aprile seguente, sabato santo: miei
padrini furono lo zio Gioachino da Costa e una donna di Gondifelos
chiamata Alexandrina.
Prima dei tre anni non ricordo nulla, se
non qualche tenerezza usatami dai miei.
A tre anni ebbi la prima piccola « carezza
» del Signore. Dovevo stare coricata presso mia mamma che riposava, ma,
irrequieta come ero, non volevo dormire: alzatami, mi protesi verso un
barattolo di grasso che serviva per ungere i capelli, come si usava
allora; volevo imitare i grandi. Se ne accorse la mamma che mi richiamò
di sorpresa e mi spaventai. Il barattolo mi sfuggì dalle mani e s'infranse
sul pavimento mentre io vi cadevo sopra, ferendomi gravemente al viso.
Fui trasportata subito da un medico, che si dichiarò incapace di
trattare il mio caso; mia madre allora mi portò a Viatodos da un
farmacista famoso che mi diede tre punti. Soffersi molto: almeno avessi
saputo già allora approfittare del dolore! Ma no! Fui invece cattiva col
farmacista, rifiutando i biscotti inzuppati nel vino che mi offriva per
calmarmi. Fu questo il mio primo atto di cattiveria.
Verso i quattro anni amavo indugiarmi a
contemplare la volta del cielo. Più di una volta domandai ai miei se non
si poteva arrivare lassù collocando, una sopra l'altra, le case, gli
alberi, ecc.; alle loro risposte negative provavo tristezza e nostalgia.
Non so cosa mi attirasse lassù.
Alla stessa epoca abitava con noi una zia
che morì poi di cancro. Ella, già ammalata, mi chiedeva di cullare il
suo bambino, primo frutto del suo matrimonio. Le facevo quel servizio
volentieri, sia di giorno che di sera.
Così pure ero contenta di unirmi alla sua
preghiera per ottenerne da Dio la guarigione.
Ero vivace e dominatrice
Quando ai cinque anni iniziai a
frequentare la scuola di catechismo rivelai subito un grande difetto: la
testardaggine. Il vice-parroco mi assegnò il posto tra le bambine della
mia età, ma io mi infilai tra le più alte, con le quali ero solita
accompagnarmi. Nonostante le insistenze e le promesse del viceparroco,
io non cedetti se non dopo alcuni giorni. In chiesa mi soffermavo a
contemplare le statue. Mi attiravano soprattutto quelle della Madonna
del Rosario e di San Giuseppe. Il loro abbigliamento sontuoso destava in
me il desiderio di essere elegante come loro per fare bella figura. Era
forse un sintomo della mia vanità?
Insieme a questi difetti esprimevo fino da
quella età il mio amore verso la Mamma del cielo: cantavo con entusiasmo
le sue lodi e portavo fiori alle zelatrici che solevano ornare il suo
altare.
Ero vivacissima, sì da meritarmi il
soprannome « Mariamaschietto ». Dominavo le mie compagne, anche quelle
più alte. Mi arrampicavo sugli alberi. Preferivo camminare sui muretti
di cinta anziché sulla strada.
Mi piaceva lavorare: pulire la casa,
trasportare legna, lavare. E volevo il lavoro ben fatto; ed anche la mia
persona volevo che fosse linda.
Un giorno ero al pascolo in compagnia di
mia sorella Deolinda e di una cugina. Una mula ci sfuggì in una
coltivazione. Corsi a richiamarla, ma con un colpo di testa essa mi
buttò a terra e con una zampa si mise a rasparmi il petto come per gioco.
Ripeté il gesto parecchie volte, ma non mi fece alcun male. Le mie
compagne si misero a gridare: accorsero varie persone che rimasero
stupite nel vedermi illesa.
Una volta andai con Deolinda a far visita
alla mia madrina. Per fare più in fretta volemmo attraversare il
torrente Este saltando su grosse pietre collocate a questo scopo. Ma la
forza della corrente era tale che le pietre ci sfuggirono di sotto i
piedi; cademmo nell'acqua e ci salvammo per miracolo.
Prima Comunione e Cresima
Nel gennaio 1911 fui mandata con mia
sorella a Póvoa de Varzim per frequentare la scuola. Rifuggo dal pensare
quanto mi costò la separazione dalla famiglia. Piansi assai e per molto
tempo. Cercarono di distrarmi colmandomi di carezze ed accontentandomi
in tutto; dopo un certo tempo mi rassegnai. Continuai però ad essere
monella: mi aggrappavo ai tram per lunghi tratti, attraversando la
strada quando essi stavano sopraggiungendo; i conduttori dovettero
accusarmi alla donna che ci teneva in pensione. Sovente fuggivo da casa
per andare alla spiaggia a raccogliere alghe; mi inoltravo nell'acqua
come le pescatrici. Ciò affliggeva la donna che ci ospitava, perché mi
assentavo di nascosto.
Fu a Póvoa de Varzim che feci la prima
Comunione. Padre Alvaro Matos mi insegnò il catechismo, mi confessò e mi
diede per la prima volta Gesù. Avevo sette anni. Ricevetti la Comunione
in ginocchio, pur essendo molto piccola. Fissai l'Ostia santa in tal
modo che mi rimase impressa nella mente; ebbi l'impressione di unirmi a
Gesù per sempre. Mi parve che Egli legasse a Sé il mio cuore. La gioia
che provai è inspiegabile. Ne parlavo a tutti. Come ricordo ricevetti
una bella corona del Rosario ed una immagine.
La signora che ci ospitava e si curava
della nostra educazione mi condusse poi ogni giorno a ricevere la
Comunione. A Villa do Conde dal vescovo di Oporto mi fu amministrata la
Cresima. Ricordo benissimo la cerimonia e la consolazione che provai.
Non so dire ciò che sentii in me in quel momento. Mi parve che una
grazia soprannaturale mi trasformasse e mi unisse ancor più al Signore.
Non so spiegarmi meglio.
Alcuni ricordi di Póvoa
A misura che crescevo, aumentava in me il
desiderio della preghiera. Volevo imparare tutto. Ancor oggi conservo un
libretto con le pratiche devozionali della mia infanzia: le preghiere
alla Madonna, l'offerta al Signore delle mie azioni giornaliere, l'orazione
all'Angelo custode, a San Giuseppe e varie giaculatorie.
Quando uscivo a passeggio con la signora
che ci ospitava e con altre bambine, mi allontanavo a raccogliere fiori
che andavo poi a sfogliare nella cappella dell'Addolorata.
A maggio godevo nel contemplare gli altari
della Madonna adorni di fiori ed ero felice quando la mamma me ne
portava per questo scopo.
Il Cappellano della chiesa dell'Addolorata
organizzava comitati di fanciulle per il culto alla Madonna. Si andava
nelle parrocchie vicine a raccogliere generi alimentari. Ricordo che un
giorno ad Agucadoura ci diedero ben poco ed allora avemmo la infelice
idea di assaltare un campo di patate: ne raccogliemmo quasi due chili.
Ero molto affezionata alla mia signora.
Quando ricevevo qualche dono gliene facevo parte per darle gioia: lo
facevo di cuore, anche se ero molto cattiva.
Un giorno mia sorella le chiese di poter
andare a casa di un'amica a studiare ed io mi impuntai nel volerla
seguire. Siccome la signora non me lo consentì, io piansi stizzita e le
diedi un nomignolo. Ella non mi castigò, ma mi disse che non avrei
potuto andare a confessarmi senza chiederle perdono. Anche mia sorella
mi affermò la stessa cosa. Mi ripugnava tanto il chiederle perdono, ma
il desiderio di confessarmi e di fare la Comunione era tale che vinsi il
mio orgoglio. Mi posi in ginocchio davanti a lei che mi perdonò con le
lacrime agli occhi. Io provai una grande gioia nel poter andare a
confessarmi e a ricevere Gesù.
Di quel tempo mi ricordo anche del
rispetto che nutrivo per i sacerdoti. Quando, seduta sulla porta di
casa, o sola o accompagnata, ne vedevo passare qualcuno, io mi alzavo e
chiedevo la benedizione. Talvolta osservavo che le persone ne rimanevano
ammirate e ciò mi rallegrava tanto che sovente mi sedevo apposta per
avere modo di alzarmi al passaggio dei ministri del Signore e mostrare
così la mia venerazione per loro.
Ritorno al paese
Prime contemplazioni e amore all'innocenza
Dopo 18 mesi, appena mia sorella ebbe
superato il suo esame, ripartimmo da Póvoa. La mamma voleva che io
rimanessi a studiare, ma da sola non volli restare. Avevo imparato ben
poco.
Ritornammo per quattro mesi alla frazione
Gresufes dove siamo nate. Poi venimmo ad abitare più vicino alla chiesa,
in una casa di mia madre, nella frazione detta «Calvario».
Verso i nove anni, quando mi alzavo di
buon'ora per i lavori di campagna e potevo essere sola, mi indugiavo a
contemplare la natura: lo spuntar dell'aurora, il nascere del sole, il
cinguettare degli uccelletti, il gorgogliare delle acque entravano in me
trasportandomi in una contemplazione tanto profonda che quasi mi faceva
dimenticare di vivere nel mondo. Mi fermavo assorbita dal pensiero: o
potenza di Dio!
Quando mi trovavo sulla riva del mare, oh
come mi perdevo di fronte a quella grandezza infinita! Di notte, nel
contemplare il cielo e le stelle, mi smarrivo nella ammirazione delle
bellezze del Creato.
Quante volte nel mio giardinetto ammiravo
il cielo, ascoltavo il mormorio delle acque e penetravo sempre più
nell'abisso delle grandezze divine!
Mi spiace di non aver saputo approfittare
di quei momenti per darmi fin da quella età alla meditazione. Anche se
molto vivace, avevo una grande paura di perdere la mia innocenza e di
attirarmi la disapprovazione di Dio. Mi ricordo di aver detto due parole
che ritenevo peccato: me ne vergognai subito e mi costò assai
confessarle.
Non mi piacevano i discorsi maliziosi.
Sebbene non ne capissi il significato, minacciavo chi li faceva di non
più avvicinarli, qualora non si fossero corretti. Così pure mi indignavo
se vedevo qualche gesto scorretto.
All'inferno, no!
A nove anni feci la mia prima confessione
generale a Fra Emanuele delle Sante Piaghe che predicava a Gondifelos.
Vi andai con Deolinda con una cugina che si chiamava Olivia. Prendemmo
posto presso l'altare del sacro Cuore per udire meglio la predica. Io
deposi i miei zoccoletti presso la balaustra.
Il tema del discorso era l'inferno.
Ascoltai con molta attenzione parola per parola. Ad un certo punto il
padre ci invitò a scendere con lo spirito nell'inferno. Io non compresi
l'esatto significato delle sue parole, ed avendo sentito dire che Fra
Emanuele era un santo, credetti che noi tutti saremmo andati davvero
all'inferno per vedere ciò che avviene in quel luogo. Dissi allora fra
me: - All'inferno non voglio andare! Quando gli altri vi si dirigeranno,
io me la svignerò. - Così pensando, afferrai i miei zoccoletti per
essere pronta a fuggire. Vedendo che nessuno si muoveva, rimasi dove ero,
ma sempre con gli zoccoletti in mano.
Ero molto scherzosa
Amavo molto mia sorella, ma quando mi
stizzivo con lei le tiravo addosso ciò che mi capitava in mano: mi
ricordo di averlo fatto due volte e mi sento in dovere di confessarlo.
Mi piaceva assai farle degli scherzi. Qualche volta al mattino mi alzavo
prima di lei e le mettevo degli ostacoli alla porta per farla cadere,
come per dirle che era pigra. Le feci anche scherzi di cattivo gusto. Un
giorno alzai il coperchio di una cassapanca e lo lasciai cadere con
forza emettendo alte grida e fingendo di essermi schiacciata una mano.
Deolinda accorse spaventata ed angosciata, finché ad un certo punto le
risi in faccia. Nella intimità familiare, chi rallegrava tutti ero io.
La mamma soleva dire: - I ricchi hanno il giullare; io non sono ricca ma
ce l'ho ugualmente.
Deolinda a 12 anni incominciò il suo corso
di sarta. Il primo capo confezionato fu una camicia per me; ma per il
taglio e l'ampiezza pareva una camicia da ragazzo. Io, nonostante i miei
nove anni, mi burlai di lei. Vestii la camicia sopra i miei abiti e mi
incamminai verso casa. Mia sorella, ridendo a più non posso, mi
supplicava: - Svesti quella camicia! Non hai vergogna di dare spettacolo
in tal modo? - Non le diedi retta... e, ridendo anch'io, feci quei 500
metri che mi separavano da casa.
In un bel pomeriggio andai con le mie
cugine a passeggio su un monticello poco lontano da casa ove trovammo
alcuni giumenti al pascolo. Pur non sapendo cavalcare, mi arrischiai a
saltare in groppa ad uno di essi. Pochi istanti dopo caddi tra i rovi,
ma non mi ferii e ci facemmo una buona risata. Sui 16 anni, già ammalata,
andai alla casa dove mia sorella lavorava da sarta. Avendo trovato
appeso un vestito da uomo, lo indossai e comparvi davanti a mia sorella
e alla padrona di casa. Quanto risero non so dire. La padrona mi suggerì
di uscire in istrada ove i suoi figli e il marito stavano potando le
viti del pergolato. Pur sospettando che mi avrebbero riconosciuta,
ubbidii. Passando vicino a loro li salutai togliendomi il cappello. Essi
smisero di lavorare e mi osservarono a lungo domandandosi: - Ma chi è
quel giovanotto? - Mia sorella e la padrona dalla finestra seguirono la
scena ridendo a più non posso. Ricordando certe monellerie mi duole di
averle commesse: vorrei piuttosto avere amato Gesù.
Carità verso i bisognosi
Quando venivo a sapere che qualche persona
non aveva di che coprirsi a sufficienza, chiedevo il necessario alla
mamma. Rimasi sovente a far compagnia ai sofferenti.
Assistetti alla morte di qualcuno,
pregando come sapevo. Aiutavo a vestire i defunti, anche se mi costava
assai; lo facevo per carità. Non avevo il coraggio di lasciar soli i
parenti del morto. Prestavo volentieri questi aiuti, vedendoli tanto
poveri
Mi ricordo di alcuni casi. Andai a
visitare un uomo ammalato e lo trovai coperto di poveri stracci. Corsi
subito a casa e chiesi alla mamma due lenzuola. Me le imprestò
volentieri; le portai e rimasi a fare compagnia alla figlia
dell'ammalato, che visse ancora 12 giorni. Una ragazza venne un giorno
ad avvisarci che una sua vicina stava per morire. Mia sorella prese un
libro di devozioni, l'acqua benedetta e corse presso la moribonda. Due
alunne sarte e io la accompagnammo. Deolinda iniziò la preghiera per la
buona morte benché fosse tanto turbata da tremare. Terminate le orazioni,
la donna si spense. Allora Deolinda disse: - Ho fatto quello che potevo;
non mi sento di fare altro. - E se ne andò. Anche una nipote se la
svignò. Io osservai la figlia della defunta e non ebbi il coraggio di
lasciarla sola. Rimasi ad aiutarla a lavare e a vestire la salma che era
tutta piagata ed esalava un puzzo ripugnante. Mi pareva di svenire da un
momento all'altro. Una donna che ci osservava dalla camera vicina notò
il mio malessere ed uscì a prendere delle foglie profumate per farmele
odorare. Me ne venni di là quando la defunta fu ben sistemata sul letto.
Avevo 11 o 12 anni quando i miei zii, che abitavano nel paese di S.
Eulalia, si ammalarono di spagnola. Accorsero ad assisterli mia nonna e
poi mia mamma, ma si buscarono la stessa malattia; allora, sebbene fossi
molto giovane, andai con mia sorella a prenderne cura. Una notte mio zio
morì. Rimanemmo colà fino alla Messa del settimo giorno. Una volta fu
necessario andare a prendere il riso attraversando la camera ove mio zio
era morto. Arrivata sulla soglia, mi prese la paura. Non ebbi il
coraggio di entrare e dovette venire con me mia nonna. Una sera fui
incaricata di chiudere le finestre di quella camera. Giunta alla saletta
attigua dissi a me stessa: - Devo perdere la paura! - E così dicendo
camminai adagio di proposito, aprii la porta e passai dove era stata la
salma dello zio. Da allora non ebbi più paura: mi ero vinta.
Godevo molto nel fare l'elemosina ai
poveri. Quante volte piangevo perché impotente ad aiutarli secondo i
loro bisogni! Mi sentivo felice di privarmi persino del mio cibo.
Benché fossi molto giovane, diedi sovente
consigli a persone di una certa età. Le confortavo come meglio sapevo,
ottenendo che molti evitassero di fare del male. Delle confidenze che mi
facevano conservai sempre il più rigoroso segreto. Mi sento piena di
riconoscenza verso il Signore. A Lui solo devo di essermi comportata
così.
Devozione a Gesù
Non tralasciavo un giorno di pregare, in
chiesa, a casa e lungo le strade; facevo sempre la comunione spirituale
così: - O mio Gesù, vieni al mio povero cuore! Io Ti desidero: non
tardare. Vieni ad arricchirmi delle tue grazie, aumenta in me il tuo
santo e divino amore. Uniscimi a Te! Nascondimi nel tuo sacro Costato!
Non voglio bene che a Te. Solo Te amo, solo Te voglio, solo per Te
sospiro. Ti ringrazio, eterno Padre, per avermi lasciato Gesù nel
santissimo Sacramento. Ti ringrazio, mio Gesù, e, infine, Ti chiedo la
santa benedizione. Sia lodato ogni momento il santissimo e divinissimo
Sacramento! -
Amavo molto fare meditazione sul
santissimo Sacramento e sulla Madonna; quando non potevo farlo di
giorno, lo facevo di notte, nascosta a tutti, accendendo una candela che
tenevo riposta per questo scopo.
Le vite dei santi e le meditazioni molto
profonde non mi soddisfacevano, perché vedevo che in nulla assomigliavo
ai santi; invece di farmi bene mi facevano male.
Nel 1916 mi ammalai gravemente fino a
dover ricevere il Sacramento dell'Olio Santo. Mi preparai alla morte
molto serenamente. Un giorno, con la febbre alta, caddi in delirio, ma
mi ricordo di aver chiesto alla mamma che mi desse Gesù. Ella mi porse
il crocifisso. - Non è questo che voglio: voglio Gesù Eucaristico! - A
dodici anni fui aggregata al gruppo di canto e delle catechiste. Per il
canto avevo una vera passione. Lavoravo con molta soddisfazione anche
nella scuola di catechismo.
Quando facevo la Comunione e mi trovavo
tra le compagne a fare il ringraziamento mi sentivo molto piccola e la
più indegna di ricevere Gesù Eucaristico.
Ero molto forte: un duro lavoro
Ero molto forte. Ricordo che un giorno un
uomo si vantava con alcune ragazze di essere molto robusto. Io mi
lanciai contro di lui che se ne stava seduto, lo afferrai e lo stesi a
terra. Si mise a gridare di lasciarlo, ma io lo rotolai, abbandonandolo
soltanto quando lo volli: il mio fine era solo quello di ottenere che
egli, essendo uomo, mostrasse la forza di cui si vantava. Sui 13 anni
diedi un potente schiaffo ad un uomo che mi aveva rivolto una frase
sconcia. Dai 12 ai 14 anni ho goduto di una normale buona salute;
lavoravo in campagna così bene che guadagnavo tanto quanto la mamma.
Una volta, raccogliendo, su di un rovere,
le foglie da dare alle bestie, caddi al suolo e rimasi qualche istante
senza respirare e senza potermi muovere; poi mi rialzai e ripresi il
lavoro. Dai 12 ai 13 anni fui posta dalla mamma a servizio di un vicino
a queste condizioni: libertà di andare a confessarmi ogni mese; libertà,
nei pomeriggi della domenica, di starmene a casa e di andare alle
funzioni religiose; proibizione di farmi uscire all'imbrunire. Il
contratto era per cinque mesi, ma non li terminai. Il padrone era un
aguzzino: mi dava nomignoli spregiativi, mi obbligava ad un lavoro
superiore alle mie forze. Era un uomo senza pazienza, crudele perfino
con gli animali. Mi umiliava davanti a chiunque. Quella vita triste
rubava la gioia della mia giovinezza.
Un pomeriggio mi mandò al mulino, dove
giunsi sul far della sera; quando rincasai era già scuro, perché ci
voleva un'ora di strada. Egli mi sgridò duramente, mi diede persino
della ladra. Suo padre, già vecchio, prese le mie difese. Siccome per la
notte ritornavo sempre a casa mia, quella volta, assai offesa perché la
mia coscienza non mi rimproverava di nulla, mi lamentai con la mamma.
Ella, informatasi dell'accaduto e constatato che le condizioni del
contratto non erano state rispettate, mi ritirò dal servizio, nonostante
le insistenze del padrone. Una volta, a Póvoa de Varzim, quel padrone mi
aveva lasciata, dalle 22 alle 4 del mattino, a custodire quattro coppie
di buoi mentre egli con un suo amico se ne era andato non so dove. Piena
di paura, passai così quelle tristissime ore della notte. Mi furono
compagne le stelle del cielo che brillavano molto.
Un sogno che non dimenticai
Una sera andavo dalla cucina alla camera
con un lume che mi si spense. Lo riaccesi più volte ed altrettante si
spense, senza che vi fosse un soffio di vento. Quando tentai di
accenderlo per l'ultima volta caddi, rovesciando il petrolio che mi
sprizzò in faccia e in bocca. Pensai che fosse un diavoletto dispettoso
ed esclamai: - Puoi andartene perché con me non hai nulla da fare. - Mi
coricai tranquilla, mi addormentai e feci un sogno che rimase impresso
nel mio animo. Salii fino al paradiso attraverso una scaletta dai
gradini tanto minuscoli che a stento vi poggiavo la punta dei piedi.
Arrivai lassù con difficoltà, impiegandoci molto tempo perché non vi era
nulla cui aggrapparsi. Durante la salita vidi ai lati della scala alcune
anime che mi confortavano senza parlare. Lassù vidi su di un trono il
Signore e al suo fianco la Mamma celeste; il cielo era affollato di
beati. Dopo quella visione, pur non volendo, dovetti ritornare sulla
terra. Discesi facilmente; tutto scomparve e mi svegliai.
II salto dalla finestra
Un giorno mentre in casa aiutavo mia
sorella sarta ed una apprendista intravvedemmo sulla strada tre uomini:
il mio antico padrone, un altro uomo sposato e un terzo celibe. Mia
sorella, avendo intuito qualche cosa dai loro gesti e vedendoli
imboccare il sentiero di casa nostra, ci ordinò di chiudere la porta.
Qualche istante dopo li udimmo salire la scaletta e bussare. Rispose
Deolinda, dicendo che si apriva solo ai clienti. Il mio padrone, che
conosceva la casa, passò per la cantina situata al pian terreno e salì
per la scala interna mentre gli altri aspettavano presso la porta. Non
potendo entrare per la botola chiusa e su cui trascinammo subito la
macchina da cucire, il padrone armato di una mazza batté furiosamente
sugli assi della botola fino a spaccarla e ad aprirsi un varco.
Deolinda, afferrata da lui per la sottana, riuscì a liberarsi ed aprì la
porta per fuggire. L'altra ragazza le andò dietro, ma uno dei tre la
trattenne e se la abbracciò sedendosi sul letto. Io, nel vedere il
pericolo, mi buttai dalla finestra in giardino, con un salto di circa
quattro metri; tentai di rialzarmi, ma non ci riuscii per un forte
dolore al ventre. Nel salto smarrii il mio anello. Ripreso coraggio, mi
armai prendendo un palo della vigna come bastone e attraverso il
cancelletto dell'orto andai in cortile ove mia sorella stava discutendo
con i due uomini sposati. L'altra ragazza era nella camera con il terzo.
Avvicinandomi li chiamai « cani » e minacciai che se non liberavano la
ragazza mi sarei messa a chiamare aiuto: mi ubbidirono. Fu allora che mi
accorsi di aver perduto l'anello e gridai: - Cani, per causa vostra ho
perduto l'anello! - Uno di loro, mostrandomi la sua mano con vari anelli,
mi disse: - Scegli qui! - Sdegnata, gli gridai: - Non voglio! -
Vedendoci risolute e sprezzanti, se ne
andarono e noi ritornammo al lavoro.
Dell'accaduto non parlammo con nessuno, ma
la mamma venne a conoscenza di tutto. Poco dopo incominciai a soffrire
sempre di più. Tutti dicevano che era per il salto dalla finestra. Anche
i medici più tardi confermarono che quel salto doveva avere contribuito
alla mia infermità.
Sofferenze fisiche e spirituali
Lavorai ancora per alcuni mesi con molta
difficoltà; poi fui costretta a smettere e con ripugnanza dovetti
sottopormi alle cure dei medici che mi diagnosticavano malattie varie.
Tutti avevano pena di me e soffrivo solo per i miei mali fisici, ma ciò
durò poco.
Le mie più grandi amiche, i familiari e
persino lo stesso parroco si misero contro di me: parecchie persone mi
schernivano per la mia andatura, per la posizione che, forzatamente,
prendevo in chiesa. Il parroco mi accusava di non mangiare a sufficienza
per capriccio e mi ammoniva che se fossi morta mi sarei dannata.
Confessandomi mi diceva che era proprio questo il mio peccato più grave.
Quanto ne ho sofferto! Mi confidavo soltanto con il Signore. Nel
tragitto dalla casa alla chiesa ero solita soffermarmi a guardare le
montagne ed ero tentata di fuggire in un luogo ove nessuno mi vedesse.
Non l'ho fatto solo per grazia di Dio. Quanto ho pianto! Non ricordo
bene quanto durò questa incomprensione; forse meno di un anno. Poi,
siccome peggioravo, il parroco stesso consigliò mia madre di
accompagnarmi da un medico suo conoscente. Fu lui che mi liberò dal mio
martirio, spiegando a chi gli domandava di me che non mangiavo perché
non potevo. Anche se non gli fu possibile immaginare pienamente le mie
sofferenze, si mostrò molto comprensivo. Fui sollevata da questa
sofferenza, ma il Signore ne permise un'altra ancora maggiore. Ne ebbe
conoscenza soltanto Gesù e, anni dopo, il mio padre spirituale. Passai
sei anni tra letto e lettuccio. Una volta trascorsi cinque mesi senza
potermi alzare ma sempre in quella sofferenza spirituale che sopportai
per 12 anni, senza svelarla a nessuno.
Trovandomi sola, prigioniera del mio letto,
guardavo in lacrime il quadro del sacro Cuore di Gesù: Lo supplicavo di
liberarmi da quel tormento e di darmi luce sul da farsi. Così pure mi
raccomandavo alla Madonna perché intercedesse per me.
Pretendenti
Sui 16 anni andai con Deolinda a Póvoa per
una cura marina. Un giorno, mentre mi recavo in chiesa, un militare mi
si avvicinò rivolgendomi galanterie. Mi schermii subito, ma, siccome non
si allontanava, gli proposi di attendermi dopo la funzione. Nella mia
mente pensavo di cambiare strada e di poterlo schivare. Uscita di chiesa,
molto guardinga, non lo vidi e passai per la stessa via. Ad un certo
momento me lo trovai davanti senza rendermi conto di dove fosse spuntato.
- Signorina, che cosa mi ha promesso? - E così dicendo pretendeva
accompagnarmi a casa. Mi fermai e gli fui franca: - Sono ammalata e poi...
mia madre non vuole che io faccia l'amore! - Egli non si convinse. Per
fortuna comparve Deolinda. Pensando che io stessi a fare l'amore mi
sgridò aspramente. Non passai più per quella strada e tutto finì.
Ad un altro giovane che mi accennò al
matrimonio risposi: - Non rinuncio alla mamma e a Deolinda per un uomo.
– Il parroco, avendo saputo che io piacevo ad un giovanotto, mi disse un
giorno: - Se lo vuoi, io mi interesso della faccenda. - Gli risposi: -
Le pare che nelle mie condizioni possa permettermi di propormi tale
problema? - In verità io sapevo e sentivo di essere ammalata, ma inoltre
mi mancava l'inclinazione al matrimonio, anche se talora mi passava per
la mente che se fossi diventata mamma avrei educato i figli molto
cristianamente.
A
letto per sempre
Nell'aprile 1925 [giorno 14] mi posi a letto per sempre. Non mi si
diceva più: - Coraggio, ti rialzerai. - Il medico Giovanni da Almeida di
Oporto avvisò mia mamma che temeva una totale paralisi. Mia sorella, che
faceva la sarta, divenne anche la mia infermiera, perché la mamma
lavorava in campagna. Ebbi ore di scoraggiamento, ma mai di disperazione.
Nulla mi legava al mondo. Provavo soltanto nostalgia per il mio
giardinetto, perché mi piacevano i fiori e qualche volta, portata in
braccio da mia sorella, potei ancora vederlo. Sentivo molta nostalgia
per la nostra chiesa: nella festa del sacro Cuore o quando si celebrava
messa cantata piangevo amaramente. Mia sorella, che faceva parte del
coro, nel vedermi in lacrime mi diceva: - Se fosse possibile stare in
chiesa coricati ti ci porterei in braccio. - E piangeva pure lei. Però
ero conformata alla volontà del Signore. A poco a poco mi abituai al
letto e la nostalgia si spense. Per distrarmi, nei primi tempi, giocavo
a carte con qualcuno o anche da sola. Mi spiace di non aver fin da
allora pensato come penso oggi: cioè di vivere unita in spirito al mio
Gesù. Giunsi a fare voti per ottenere la guarigione; come me, la mamma,
la sorella, le cugine. Infine capii che il Signore mi voleva ammalata;
perciò non chiesi più di guarire. Arrivai più volte, molto rassegnata,
alle soglie della morte. Dalla medicina non ebbi altro sollievo che
qualche iniezione di morfina.
La mia Mamma Celeste
Tutti gli anni celebravo il
mese mariano. Preferivo celebrarlo da sola: meditavo, cantavo, piangevo
chiedendo alla Mamma celeste di liberarmi da quella grande tribolazione
che mi faceva soffrire tanto. Solevo cantare il « Tantum ergo » come se
fossi stata in chiesa. Non avendo Gesù in casa né sacerdote che mi
benedicesse, pregavo il Signore che lo facesse Lui dal cielo e dai suoi
tabernacoli. Momenti felici! Mi pareva piovessero su di me tutte le
benedizioni e l'amore del Signore. Ed allora abbracciavo nel mio cuore
tutta la mia famiglia e le persone care. Nei primi anni della mia
degenza, dalla casa del parroco mi portavano, all'inizio di maggio, una
statuetta del Cuore di Maria che, con rincrescimento, restituivo alla
fine del mese. Fu così che pensai al modo di acquistarmene una, ma
poiché non ne avevo i mezzi, fui aiutata da varie persone. Un'amica mi
donò alcune pollastrelle che Deolinda allevò fino a che fecero le uova e
le covarono; venduti i pulcini, comprai la statuetta, la mensola e la
campana di vetro. Non so dire la gioia che provai nell'avere una
Madonnina tutta mia: potevo contemplarla giorno e notte.
Se un giorno mi rivedrete per la strada...
Mi giunse notizia dei miracoli che
avvenivano a Fatima. Nel 1928 varie persone della parrocchia andarono
pellegrine alla Cova da Iria; in quella occasione venne anche a me il
desiderio di partire. Il medico ed il parroco non me lo consentirono,
perché il viaggio era lungo ed io non sopportavo neppure che mi
toccassero il letto. Fui consigliata di chiedere ugualmente la
guarigione e di andare poi a Fatima in ringraziamento. Il medico diceva
che se fosse avvenuto il miracolo, lo avrebbe testimoniato senza timore.
In quello stesso anno anche il parroco
andò alla Cova da Iria: mi portò di là una corona del Rosario, una
medaglietta ed il « Manuale del pellegrino »; consigliandomi una novena
alla Madonna. Ne feci parecchie, cantando le lodi mariane stampate nel
libretto
A chi mi visitava solevo dire: - Se un
giorno mi rivedrete per la strada e mi sentirete cantare, ditelo a
tutti: è Alexandrina che ringrazia la Madonna. - Era la mia fiducia in
Gesù e Maria che mi faceva parlare così. Tra me pensavo che se fossi
guarita mi sarei fatta suora, perché mi spaventava vivere nel mondo; che
non sarei più ritornata a rivedere la mia famiglia; che mi sarei fatta
missionaria per battezzare tanti moretti e per salvare anime a Gesù. Non
avendo ottenuto la guarigione, compresi che mi illudevo e quei miei
desideri scomparvero per sempre. Cominciai a sentire ognor più l'ansia
di amare la sofferenza e di pensare soltanto a Gesù.
Mi offersi a Gesù Sacramentato come vittima
Un giorno, mentre ero sola e pensavo a
Gesù nel tabernacolo, Gli dissi: - Mio buon Gesù, Tu sei imprigionato.
Anch'io lo solo. Siamo ambedue carcerati. Tu per il mio bene
ed io incatenata da Te. Tu sei Re e
Signore di tutto. Io sono un verme della terra. Ti ho trascurato
pensando alle cose del mondo che sono perdizione per le anime, ma ora,
pentita di cuore, voglio ciò che Tu vuoi, voglio soffrire rassegnata.
Non lasciarmi senza la tua protezione. - Da parecchio tempo chiedevo al
Signore amore alla sofferenza e, senza sapere il modo, mi offersi a Lui
come vittima. Il Signore mi concesse questa grazia in misura tanto
abbondante che oggi non cambierei la sofferenza con quanto esiste nel
mondo. Amante del dolore, ero contenta di offrire a Gesù i miei
patimenti. Mi preoccupava soltanto consolare Gesù e salvargli anime.
Perdute le forze fisiche, abbandonai le distrazioni e, attraverso la
preghiera che mi dava un vero conforto, mi abituai a vivere in intima
unione col Signore. Quando le visite mi distraevano un poco, ne rimanevo
spiacente per non aver pensato a Gesù. Per amore di Gesù e della Mamma
celeste mi abituai a fare piccoli sacrifici: rinunciare a guardarmi
nello specchio; non parlare per combattere la mia voglia di parlare e
viceversa; vegliare durante la notte per fare compagnia a Gesù; non
allontanare le mosche che mi tormentavano, ecc.
Unita a Gesù
sacramentato attraverso Mammina
Facevo la Comunione sacramentale poche
volte, ma vivevo unita a Gesù il più possibile. Per onorare Gesù e la
Mamma del cielo scrissi su pezzi di carta ed immagini questa preghiera:
- Gesù, Ti amo con tutto il cuore. Abbi pietà di questa povera ammalata.
Prendila con Te quando vuoi. Mio amato Gesù, non dimenticarti di me,
perché sono una grande peccatrice. Mio caro Gesù, vorrei visitarti nei
tuoi tabernacoli, ma non posso; la mia malattia mi lega al mio caro
lettuccio. Sia fatta la tua volontà. Ma concedimi almeno che non passi
un momento senza che io venga in spirito ai tuoi tabernacoli per dirti:
« mio Gesù, voglio amarti, voglio incendiarmi nella fiamma del tuo Amore,
pregare per i peccatori e per le anime del purgatorio ». - (1930).
Sulla copertina di un libretto scrissi nel
maggio 1930: - Mia cara Mamma del cielo, vieni ai tabernacoli del tuo e
mio Gesù, presentagli Tu le mie preghiere e rendi valide le mie
suppliche. O rifugio dei peccatori, di' a Gesù che voglio essere santa.
Digli inoltre che voglio molte sofferenze, ma che non mi lasci sola
neppure un minuto. lo devo soltanto umiliarmi, perché nulla sono, nulla
posseggo, nulla valgo. Digli che Lo amo molto, ma che Lo voglio amare
assai di più. Voglio morire bruciata nell'amore tuo e di Gesù. Sì, digli
molte cose di me, fagli tutte le mie richieste! Confido, confido in Te!
O Maria, dammi il cielo! -
La mia preghiera dei mattino
Al mattino iniziavo le mie preghiere col
segno di croce; quindi mi univo a Gesù dicendo: - Cuore di Gesù, è per
Te questo giorno. - E vi aggiungevo: - Dammi la Tua benedizione! Voglio
essere santa. - Poi chiedevo la benedizione alla Trinità santissima,
alla Madonna, a San Giuseppe e a tutti i Santi del cielo dicendo: - Con
la vostra benedizione non avrò timore di nulla. Sarò santa come
ardentemente desidero. -
Quindi dicevo a Gesù: - Mi unisco
spiritualmente ora e per sempre a tutte le sante Messe che, giorno e
notte, si celebrano sulla terra. Gesù, immolami ogni momento con Te
sull'altare del Sacrificio, offrimi all'Eterno Padre secondo le tue
stesse intenzioni. -
Rivolgendomi poi alla Mamma celeste, Le
dicevo: - Ave, Maria, piena di grazia!... O Mammina, voglio essere santa;
benedicimi e chiedi a Gesù di benedirmi! -
Mi consacravo a Lei così: - Mammina, Ti
consacro i miei occhi, il mio udito, la mia bocca, il mio cuore, la mia
anima, la mia verginità, la mia purezza. Accetta tutto, Mamma! Tu sei lo
scrigno benedetto di ogni nostra ricchezza. Ti consacro il mio presente
e il mio futuro, la mia vita e la mia morte, tutto quanto daranno a me,
tutte le preghiere e le offerte che faranno per me. Apri le tue braccia
e prendimi. Stringimi al tuo Cuore santissimo, coprimi col tuo manto;
ricevimi come figlia amata e consacrami tutta a Gesù. Chiudimi per
sempre nel suo Cuore divino e digli che Tu Lo aiuterai a crocifiggermi
nel corpo e nell'anima. Fammi umile, obbediente e casta nell'anima e nel
corpo. Trasformami in amore; consumami nelle fiamme dell'amore di Gesù...
Mammina, vieni con me a tutti i
tabernacoli del mondo ove Gesù abita sacramentalmente. Offrimi a Lui.
Mammina, voglio formare una roccia di amore davanti ad ogni sua dimora,
perché nulla giunga a ferire il suo Cuore e rinnovi le sue Piaghe e la
sua Passione. Mammina, parla a Gesù col mio cuore e le mie labbra; rendi
più fervorose le mie preghiere, più valide le mie richieste. –
Una trincea di
amore a difesa dei tabernacoli
« O mio Gesù, io voglio che ogni mio
dolore, ogni palpito del mio cuore, ogni mio respiro, ogni minuto
secondo che trascorrerò, siano atti di amore per i tuoi tabernacoli.
Io voglio che ogni movimento dei miei
piedi, mani, labbra, lingua, occhi, che ogni lacrima e sorriso, ogni
allegria e tristezza, ogni tribolazione e distrazione, ogni contrarietà
o dispiacere, siano atti di amore per i tuoi tabernacoli. Io voglio che
ogni sillaba delle orazioni che reciterò o udirò recitare, ogni parola
che pronuncerò o udirò pronunciare, che leggerò o udirò leggere, che
scriverò o vedrò scrivere, che canterò o udirò cantare, siano atti di
amore per i tuoi tabernacoli. Io voglio che ogni bacio che darò alle tue
sante immagini, a quelle della tua e mia Madre, a quelle dei tuoi santi
e sante, siano atti di amore per i tuoi tabernacoli. O Gesù, io voglio
che ogni goccia di pioggia che viene dal cielo alla terra, che tutta l'acqua
del mondo offerta goccia a goccia, che tutta l'arena del mare e tutto
ciò che il mare contiene, siano atti di amore per i tuoi tabernacoli. O
Gesù, io Ti offro le foglie degli alberi, tutti i frutti che possono
avere, i fiori petalo per petalo, tutti i granelli di semente che sono
nel mondo e tutto ciò che vi è nei giardini, nei campi, nelle valli e
nei monti, come atti di amore per i tuoi tabernacoli.
O Gesù, Ti offro le penne degli uccelli e
il loro canto, i peli e le voci di tutti gli animali,
come atti di amore per i tuoi tabernacoli.
O Gesù, Ti offro il giorno e la notte, il caldo e il freddo, il vento,
la neve, la luna e i suoi raggi, il sole, l'oscurità, le stelle del
firmamento, il mio dormire e il mio sognare, come atti di amore per i
tuoi tabernacoli.
O Gesù, Ti offro tutto quanto vi è nel
mondo, le grandezze, le ricchezze, i tesori, tutto quanto avviene in me,
tutto quanto ho per abitudine di offrirti, tutto quanto si possa
immaginare, come atti di amore per i tuoi tabernacoli. O Gesù, accetta
il cielo e la terra, il mare, tutto ciò che contengono come se tutto
fosse mio e io potessi disporne, come atti di amore per i tuoi
tabernacoli ». Mentre facevo queste offerte a Gesù mi sentivo rapita,
non so spiegare il modo ed allo stesso tempo sentivo un calore forte che
pareva bruciarmi. Mi pareva cosa strana perché erano giornate di freddo
e, meravigliata, osservavo se il mio corpo sudasse. Mi sentivo
abbracciata interiormente. Ciò mi stancava assai
Un programma di vita
Mi pare che sia stato in una di queste
occasioni che io sentii la seguente ispirazione del Signore: « Soffrire,
amare, riparare »
Ricordo che molte volte domandavo al
Signore: - O mio Gesù, cosa vuoi che io faccia? - E ogni volta non
sentivo se non queste parole: soffrire, amare, riparare.
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